giovedì 15 maggio 2014

Irene

Il suo abbraccio, il suo sorriso, la sua figura.
Come se un arcobaleno avesse appena attraversato il mio cielo scuro
riempiendo ogni piccola nicchia vuota della mia vita.
Una piccola rondine
che portò molto più che la primavera nel mio cuore.
Ci portò un mondo nuovo,
un mondo fatto di profumi, colori vivaci, sorrisi luminosi.

E da lì: la vita.

Ogni istante sembrava una tortura
vivendo la sua assenza.
Ogni attimo si colmava
godendo della sua presenza.

E le parole: le parole iniziarono a uscirmi dal cuore,

e non potevo fare nulla per fermarle:
erano un fiume in piena,
guidato dall'entusiasmo
spinto a straripare fino a raggiungere i paesi più lontani.
E le sensazioni iniziarono a pervadermi,
aprendo il mio cuore
che quasi esplodeva e…

E se fosse solo un sogno?

E se tutto questo fosse solo un miraggio,
una momentanea insicurezza,
uno squarcio nel cielo
destinato a chiudersi in un battito di ciglia?

venerdì 4 aprile 2014

Attraverso inespicabili ombre

Tre accordi di chitarra inconfondibili..
“Highway to hell” degli AcDc risuona nella mia testa dopo essere stata lanciata dalle cuffie dentro le mie orecchie, a grande velocità, senza alcun ritegno.
Le mani in tasca, i passi veloci e calcolati, perché non so camminare senza seguire il ritmo serrato della batteria in sottofondo.
Le labbra che si socchiudono sussurrando le parole della mia canzone preferita.
Il cappuccio nero della felpa calato sulla testa mi da un’aria da teppistella -ma d’altronde piove e odio le goccioline che si posano sugli occhiali e mi obbligano ad una vista distorta del mondo- e gli scaldamuscoli pesanti sulle caviglie e le ballerine borchiate non aiutano ad una visione angelica della mia persona.
Abbasso la maniglia scricchiolante della porta verde che mi trovo davanti ogni lunedì a quest’ora.
L’edificio in cui ci ritroviamo è sempre lo stesso, ma ogni settimana sembra sempre più invecchiato e ad ogni sguardo sembra più incline a voler cedere sotto il peso dei suoi 3 piani d’altezza.
Sala 4. La solita.
Entro nella stanza buia, con i poster colorati alle pareti nere, e sono già tutti lì.
Cory non si accorge nemmeno del mio arrivo.
Jay, alla batteria, con il suo ciuffo ribelle, mi saluta con un ghigno.
Beast, con la sua chitarra a V mi lancia un’occhiata. Niente sorriso, glielo impedisce il plettro tenuto stretto fra le labbra.
Bruce mi regala un bel sorriso, che fa a pugni con l’atmosfera.
Mi avvicino all’asta e prendo il mio microfono: “Ciao”
E cominciamo a suonare.
Ho voglia di urlare, di spaccare il mondo, di farmi sentire da tutti, di dire quel che ho dentro, di sputare la realtà in faccia a chi non la vede.
E d’improvviso, come se non fosse mai esistito nulla, il vuoto.
Mi ritrovo sola in quella stanza dalle pareti scure e dal pavimento freddo: io e nient’altro.
E repentinamente vengo risucchiata da una spirale verde smeraldo e mi ritrovo in balia della corrente.
No, non di nuovo.
So che questo è un sogno ma non riesco mai a svegliarmi, non riesco mai ad evitarlo… eccolo lì: Cory con il suo saluto.
Il vortice mi sta inesorabilmente trascinando verso la sua spada protesa verso di me. Indossa sempre la stessa armatura rosso fuoco, lucida e abbagliante, l’elmo con pennacchi altissimi che si muovono appena scossi dall’aria che sulla mia pelle sortisce un effetto dieci volte più potente. I suoi piedi ben piantati per terra e le mani congiunte sull’elsa raffigurante uno scorpione.
E alla fine della tormenta, il mio corpo trafitto all’altezza del cuore e la sua risata cattiva.

E il mio risveglio, di soprassalto, come ogni volta.

domenica 9 marzo 2014

Just a dreamer

In sottofondo Ozzy Osburne, la sua voce graffiante, la sua musica dolce: Dreamer.

Se ne andò.

Restò sola nella sua stanza, a cercare conforto nelle parole, a sperare di riempire un foglio bianco e così di sfamare la sua fame di felicità.

E l'inverno dilagò, imperterrito, dentro il suo cuore.

Dapprima nevicò sulle colline, finché il peso bagnato di quel candore spezzò la staccionata.
Allora anche la regione del sud, quel piccolo triangolo di primavera, venne sepolta sotto i freddi fiocchi.
E con il ritorno del sole fu ancora peggio: tutto si sciolse, i fiori annegarono, l'erba marcì, e quella terra diventò arida.

Il sapore del nulla, dell'indifferenza.

Con quel retrogusto di paura.
Un brivido scese lungo la sua schiena... davanti agli occhi si ritrovò un paesaggio in bianco e nero, il sole dietro le colline, quasi assente, il calore assorbito dall'oscurità.
Mancavano i colori, mancava il sentimento.
Assaporava il tutto con la triste eccitazione del cambiamento che sperava non avrebbe mai dovuto affrontare.

La strada ora era nuova, era qualcosa che non aveva mai potuto vedere: era vuota, sgombra da ogni progetto futuro, svuotata del significato che fino a poco tempo prima l'aveva impregnata di quel sapore fruttato e dolce... il sapore della felicità.

Non era in salita. Non era nemmeno in discesa. Era un indescrivibile susseguirsi di curve, cambi di rotta, cartelli stradali lontani e carreggiate scoscese.
Era un luogo affascinante, in qualche modo, ma che portava con sé un'ombra sinistra, come di pericolo, e si mostrava in tutta la sua magnificenza: una strada infinita, che si srotolava sulla campagna sconfinata, snodandosi tra valli, colline, montagne aguzze.

Una lacrima rigò il suo volto, e una sensazione di strana pienezza l'avvolse:

ora doveva ricominciare... ora era il presente, e non più il futuro, a doverla guidare.

domenica 16 febbraio 2014

E poi ci sono i ricordi #1

“Stai attenta a dove metti i piedi! Ci sono i ricci delle castagne a terra, e le foglie ti potrebbero far scivolare”
Ricordo frasi del genere ripetute ogni cinque minuti ad una scapestrata di 8 anni che correva in giro per i sentieri con i codini che le balzavano sulla testa. 
Ricordo quanto eri goloso.
Ricordo quella volta che hai riso guardandomi uscire dall’auto attraverso il finestrino.
E ricordo anche quella volta che mi hai guardato e mi hai sorriso, senza dire una parola. Quell’ultima volta. 

Inizio a perdermi nel vortice dei ricordi… mi sta trascinando dentro di sé, la corrente si fa sempre più forte, la mia capacità di oppormi viene di colpo a mancare…


Una mattina qualunque, una domenica piena di cose da fare, un giorno di lavoro come un altro. Era appena iniziato l’autunno, e con una giacchetta felpata sono salita sul furgoncino, assaporando l’odore di pane fresco fino a sentirlo riempirmi il naso. 

Portavo con me due brioches lisce, le nostre preferite, con tanto zucchero sopra, quasi ancora calde, sfornate con amore dal papà. 
“No no, io non mangio niente, ho appena fatto colazione”
Stavamo salendo a Margno, per consegnare i primi sacchetti, le prime ceste di pane della giornata. E mi sono addormentata, cullata dalla tua guida tranquilla in quel furgoncino blu, infarinato a non finire, piccolo ed accogliente, abbastanza per noi due e il nostro incarico. 
Arrivati a destinazione mi hai chiamato e siamo scesi con chili e chili di pane in pronta consegna. Il giro del supermercato, le ceste appoggiate sulla pedana del reparto alimentari, ed eravamo di nuovo in macchina. 
La strada del ritorno mangiando la brioches, che sapevo non avresti avuto il coraggio di abbandonare sul cruscotto. E il rientro in panificio, per ricaricare il furgone e ripartire. 
Ogni giro era un’avventura, insieme a te. Fatta di risate, racconti, parole, brioches. E musica. 
Quel giorno, risaliti in macchina, hai iniziato a fischiettare e poi anche a cantare. E hai intonato “camerèr porta mez littèr!”, canzone che prima di allora non avevo mai sentito, e che da allora non ho mai dimenticato. Cantavi con la tua voce vellutata e potente, spensierato. Ad ogni fermata scendevo per la consegna, e quando rimontavo in sella sentivo di nuovo il tuo dolce canto, ad accompagnare il lavoro. Ed era ciò che di più bello potessi chiedere. Un pochino poi, a volte, cantavo anch’io. Ma le canzoni che intonavo non erano del tuo genere, non le conoscevi… ascoltavi, però, con perizia e interesse. Ed era divertente vederti attento a ciò che dicevo e cantavo a squarciagola nella mia voglia di vita da quindicenne.

E a fine mattinata un saluto con un sorriso innocente e leggero, che mi lasciava addosso quella bella sensazione di essere amata per tutto il giorno.


E sto piangendo, nonno. Di nuovo. 

Cavoli, tu dici “prega, sorridi, pensami”. Eppure ogni volta quel sorriso non ce la faccio a disegnarlo sul mio volto… o forse c’è, ma a tratti, e viene spesso nascosto e soffocato dalle lacrime.

Manchi.


A tutti.


A me.




martedì 28 gennaio 2014

L'attesa

A quella ragazza piace il rosso.
Ne sono certa, perché ha sempre addosso qualche dettaglio carminio che attira l’attenzione: lo smalto opaco steso distrattamente, un rossetto acceso ben posato sulle labbra, una sciarpa di lana grossa pesante sulle spalle. Porta sempre con sé una borsa a tracolla color castagna che ricorda le vecchie cartelle scolastiche degli anni ’70. È una ragazza di bassa statura, esile, ma nei suoi occhi si leggono una determinazione ed un’energia fuori dal comune, sembra quasi che potrebbe spaccare il mondo se solo lo desiderasse.
Cammina sempre con le mani in tasca, con passo deciso e ritmato, e spesso la scopro giocare con le righe dei mattoncini rosa del marciapiede.
Non sorride mai.
Ogni mattina raggiunge la fermata del pullman con grande anticipo, si appoggia alla vecchia staccionata antistante la siepe e a gambe incrociate si perde nell'analisi di ogni tratto vandalico dipinto nella notte sul vetro ormai coperto della pensilina. I suoi occhi color nocciola si smarriscono tra i particolari: ogni giorno si sofferma su una nuova scoperta. Oggi una scimmietta incoronata ha attirato la sua attenzione: i contorni neri tracciati sapientemente con una bomboletta spray e la coda arrotolata sinuosamente sul piccolo pilastro della pensilina le donano un’aria simpatica.
Chissà che cosa sta pensando Roxy.
Ho deciso di darle un soprannome, dal momento che non la conosco, e Roxy mi è sembrato il più adatto. Forse per quel rosso che tanto ama, o forse perché i suoi capelli a spazzola le danno un’aria vispa che mi sembra ben descritta da un suono del genere.
Se mi sveglio presto, la mattina, sorrido al solo pensiero del suo arrivo. Più tempo aspetto più sarò felice di vederla spuntare da dietro l’angolo.
Mi metto comoda, con una tazza di tè al limone fra le mani, sprimaccio il cuscino verde di velluto che sta sempre appoggiato al davanzale, e ci appoggio i gomiti. Il silenzio del primo autunno avvolge il paese, in questi giorni, e tutto sembra caduto in un sonno rilassante. E la mia attesa…

È come quando da piccola, ogni domenica, stavo ad aspettare il papà che tornasse dal lavoro. Seduta sulla cassa di vernice bianca in cui tenevamo la legna per la stufa, affacciata alla finestra, pregustavo già il caldo profumo di pane fresco che mio papà avrebbe portato in casa, quando fosse rincasato dopo una notte in panificio. E quell'attesa era carica di entusiasmo, pronta ad esplodere in un abbraccio lungo e pieno d’amore.


È come quando in terza media ho atteso per un tempo che mi è sembrato infinito che le votazioni finali degli esami fossero appese sulla bacheca davanti alla segreteria al primo piano. Mille castelli di carta avevano occupato il mio piccolo cervellino, mentre fantasticavo su quali fossero i risultati, quale sensazione avrei provato dopo averli scoperti, che cosa avrebbero detto i miei genitori se fossero stati dei risultati eccezionali. L’ansia era data soprattutto dal mio desiderio infinito di eguagliare il mio fratello maggiore, che era riuscito a eccellere in tutto. E quell'attesa è stata snervante e angosciosa, ma allo stesso tempo anche silenziosa, come se non ci fosse. Come se non m’importasse, tanto che nessuno si è mai accorto che dentro scoppiavo dall'emozione quando ho finalmente potuto ammirare il risultato del mio impegno.


È come quando entro in chiesa in anticipo e attendo che cominci la messa. Il profumo delle candele, il silenzio interrotto solo dai passi delicati delle scarpe eleganti femminili e dei mocassini lucidi degli uomini, i fiori disposti simmetricamente sull'altare, le sedie vuote. Tutto rende la mia attesa un vuoto ricco di riflessioni, un momento di estrema profondità.


Mi sono appena persa nel vortice dei miei ricordi.

Stavo per perdermi l’arrivo di Roxy.
Stamattina sembra pensierosa, con le cuffie infilate nelle orecchie e ben nascoste dalla sciarpa di lana. Cammina a passo svelto, guarda in basso.
I capelli che sfidano la forza di gravità, i pantaloni verdi e la sua spirale 8 mm infilata nell'orecchio. Quanto è bella. Peccato per quelle sopracciglia aggrottate che rovinano la limpidezza del suo viso.
Le sue labbra sono socchiuse e agli angoli rivolte in basso: quella che vedo è forse tristezza? Eppure tutte le altre persone accanto a lei, schermate dalla freddezza, sembrano non vedere, sembrano non percepire il suo stato d’animo, sono perse nella loro egoistica dimensione frenetica e non si accorgono che lei sta soffrendo. Arriva l’autobus e rimango sola dietro il vetro appannato, presa dalla preoccupazione: perché quell'espressione sconvolta? Perché lo sguardo basso?
Mi alzo e porto la tazza vuota in cucina, la lavo, l’asciugo, la ripongo nell'armadio e torno a sedermi sul divano. Sento un peso sul cuore, come se stessi portando la tristezza di Roxy insieme a lei. Da quel momento in poi vivo la mia giornata dentro una bolla di riflessione che mi permette di pensare solo a Roxy, a quell'espressione di dolore sul suo volto, a quello sguardo introverso, e l’angoscia aumenta ogni minuto sempre di più.

Mezzogiorno. Non mi va di mangiare, ho fame solo dei suoi occhi nocciola alti e decisi, che quando guardano penetrano ogni molecola della materia e fanno cadere le difese di chiunque in un attimo.

E il mio desiderio viene esaudito.
Roxy scende dall'autobus, attraversa la strada a passo incerto e un momento dopo mi trovo a stringerla in un poderoso abbraccio.
Le sue lacrime scendono sulla mia spalla e i singhiozzi di dolore vengono assorbiti dal mio ascolto sincero. Un abbraccio infinito che permette alle nostre anime di incontrarsi, conoscersi, legarsi.

Sono passati 14 anni da quel giorno.

Quel fatidico 27 Settembre 2012, quel freddo pomeriggio in cui le lacrime di Roxy scesero a dirotto per ore ed ore: mentre mi presentavo a lei, mentre entrava in casa mia, mentre parlava con me seduta sul letto della mia stanza.
Sono passati 14 anni da quel giorno.
Quel fatidico mattino autunnale in cui, dopo aver atteso per un tempo infinito che il suo sguardo incrociasse il mio, dopo averla osservata ed avere imparato a conoscerla da dietro un vetro, sono uscita e le sono andata incontro. Ed è stata la scelta migliore che potessi fare.

Ogni giorno Roxy svolta l’angolo, si gira verso la mia finestra appannata, e mi saluta.

Ogni giorno Roxy indossa un particolare rosso, perché è il suo colore preferito.
Ogni giorno Roxy alza il viso, guarda il cielo. E sorride.
Ogni giorno Roxy, la mia Roxy, mi riempie il cuore di felicità.